Almerigo Grilz “Ruga”, giornalista triestino nato l’11 aprile 1953 e ucciso il 19 maggio 1987 mentre filmava i guerriglieri anticomunisti della Renamo, durante un attacco nella località di Caia in Mozambico: attacco fallito che costrinse i guerriglieri alla ritirata e Almerigo, uomo tutto d’un pezzo e dal coraggio d’un leone in terra d’Africa, fu colpito alla nuca da un proiettile vagante a 38 giorni al compimento del suo 34esimo compleanno.
Almerigo Grilz, Gian Micalessin e Fausto Biloslavo: amici dalle comuni passioni che, nell’estate del 1983, fondano Albatross Press Agency, agenzia freelance di stampa che produrrà filmati e notizie per i maggiori network internazionali, in qualità di indipendenti inviati di guerra nei paesi dove la sopravvivenza è incerta e il fegato è l’unica arma oltre la videocamera. Agenzia di stampa dotata di cineprese super8 e fotocamera Pentax oltre l’intraprendenza che porterà, economicamente a proprie spese, a quelle che Almerigo definiva “vacanze intelligenti”.
Non ho conosciuto personalmente Almerigo Grilz ma ho sentito la necessità di capirlo e conoscerlo poiché oggi non è sentimento comune donare la vita per una passione non solo giornalistica e dal sapore economico incerto. Personale necessità manifestata lo scorso 9 maggio a Padova, presso lo storico Caffè Pedrocchi, partecipando da spettatore alla mostra fotografica “Gli occhi della guerra” quale tributo a Almerigo Grilz con la presenza e intervento di Gian Micalessin.
Il primo reportage è in Afghanistan, senza ingaggio e alle dipendenze del proprio impulso a proprie spese; un reportage ad alto rischio che pochissimi sarebbero riusciti a realizzare, forse nessuno. Parte di essso, frutto di oltre un mese di sofferenza tra agguati e battaglie, venne acquistato dall’americana CBS: un battesimo di fuoco che portò Albatross a volare negli anni ’80 verso territori sempre più lontani. Impegno e coraggio, desiderio di verità, testimonianza visuale e cartacea devono cedere il passo, già alla metà degli anni ‘90, alla telematica, alla multimedialità e all’immediatezza della notizia via satellite; non più il super8 o lo scatto di un teleobiettivo manuale, capacemente manovrato dai polpacciuoli infangati dalla palude o agitato dalle onde d’urto dei bombardamenti.
Almerigo, come Biloslavo e Micalessin, è irrefrenabile e maledettamente innovativo: un albatros di baudelaireiana sostanza, libero e orientato verso l’altitudine, mentre i marinai lo stuzzicano al pari della gente comune che si burla del poeta. Albatros in missione per il pubblico che non poteva comprendere gli infernali luoghi d’azione, di guerra e disumano orrore. Almerigo ardeva per presenziare alla Storia prima che venisse al mondo, per documentarla e narrarla con il suo stile; Storia da scoprire, senza intermediazione alcuna.
Almerigo era conscio del pericolo astante e senza volto; egli era l’anfitrione della notizia sul campo di battaglia di guerre scomode e ignorate, mostrandole al mondo senza preconfezionamenti.
La parola d’ordine era “Why Not?” (“Perché no?”) ogni qualvolta si presentava un impegno ad alto rischio, al quale molti giornalisti di fama internazionale avrebbero risposto presumibilmente con un secco “No”. Ricercava la verità contro la mistificazione, filmava l’istante per renderlo eterno; non v’era limite geografico o conflitto che riuscisse a mettere in dubbio il “Why Not?”: Afghanistan, Cambogia, Mozambico, Angola, Birmania, Libano, Filippine e paesi tutt’oggi in conflitto.
Là dove la tirannìa regnava e veniva combattuta, Almerigo era presente per filmare e trascrivere quanto infame fosse la repressione sul popolo; sibilii di pallottole, bombardamenti, fango, fame, carni lacerate dalle baionette e corpi arsi: nulla poteva sfuggire al suo occhio, al fianco del combattente affinchè nulla potesse plagiare la verità.
Almerigo Grilz è il primo giornalista italiano ucciso sul campo di battaglia dopo il secondo conflitto mondiale, primo giornalista più dimenticato dalla storia perché scomodo per i suoi trascorsi politici triestini.
Un professionista italiano, self-made-man del reportage bellico, molto apprezzato professionalmente dai network esteri e inizialmente ignorato da quelli italiani. Apprezzato dalla CBS, SUNDAY TIMES, L’EXPRESS e solo più tardi in Italia da PANORAMA e L’AVVENIRE; collabora inoltre con network televisivi quali NBC, TG1, NDR e ANTENNA 2. Il 30 maggio 1987, dopo undici giorni dalla morte, il giornalista Paolo Frajese mandò in onda, in apertura del TG1, un servizio in suo ricordo: il comitato di redazione ebbe da ridire.
Il 2 maggio 2007 è stato inaugurato il “Journalists Memorial” nella località francese di Bayeux: un sentiero vellutato dal prato, costeggiato da 23 imponenti pietre bianche verticali, in cui sono incisi i nomi di quasi due mila giornalisti, cameramen e reporter caduti nel mondo dopo il D-Day del 1944: Almerigo Grilz è inciso nella lapide del 1987. Il mondo lo ricorda, l’Italia a fatica.
Egli è sepolto in Africa, ai piedi un grande albero: “L’albero di Almerigo”.
L’11 e il 12 maggio scorsi, ho avuto l’onore di intervistare coloro che hanno condiviso con Almerigo momenti indelebili di gioventù e professionali: Gian Micalessin e Fausto Biloslavo.
Intervista a Gian Micalessin
Reporter di guerra ieri ed oggi: quale era l’animo di Almerigo ieri e come crede che sarebbe oggi se fosse tra noi?
Abbiamo incominciato al termine di una stagione politica che fu anche una avventura. L’idea di andare a raccontare il mondo era la continuazione ideale dell’avventura appena conclusa e, alla fine degli anni ’70, la incominciammo in Afghanistan, un luogo simbolico per noi che venivamo da Trieste, dove l’Armata Rossa ha minacciato l’inquietudine dei nostri sogni da ragazzini con la Cortina di Ferro che passava a 10 chilometri da Trieste. Andammo in quell’Afghanistan dove l’Armata Rossa minacciava un piccolo popolo privo di risorse; andammo a raccontare la storia dei mujaheddin che si opponevano a quell’Armata che era la minaccia vicina al nostro confine. Questo sicuramente fu un elemento, ma era anche il modo per realizzare un sogno professionale che aveva coinvolto un po’ tutti: ricordiamo che Almerigo fu forse il primo, nel mondo della destra, ad avere capito l’importanza della comunicazione, dei media e delle foto; i suoi filmati e fotografie sono, forse ancora oggi, le uniche che raccontavano dell’attività giovanile della destra di quegli anni. Se per Almerigo fu la continuazione di questa attività, per me più giovane, era la realizzazione di un sogno professionale che durava fin da piccolo quando guardavo i servizi sul Vietnam.
Grilz, Biroslavo e Micalessin: reporter di guerra senza il desiderio di timbrare il cartellino…
La ragione pratica di non timbrare il cartellino era che avevamo l’etichetta di fascisti, quindi nessuno ci avrebbe preso a lavorare in uno dei giornali di quegli inizi anni ’80; la voglia di fare qualcosa di emozionante, fuori dagli schemi come era stata la nostra attività fino a quegli anni. Questo essere fascisti ci impedì spesso di collaborare con molte testate, come ancora oggi. Decidemmo di andare a lavorare all’estero da soli, a lavorare molto per le testate americane e televisioni straniere, a raccontare un mondo che spesso veniva, in quegli anni, ignorato dai media tradizionali; era un mondo dove si dovevano superare difficoltà; un mondo difficile da raggiungere, pieno di insidie e pericoli: si dovevano superare anche la noia e la fatica di mesi interi trascorsi al seguito di combattenti.
Lei e Almerigo avete vissuto pericolosamente fianco a fianco, contratto malattie e infezioni, patito dolori fisici: cosa consiglierebbe Lei e cosa avrebbe consigliato Almerigo ad un neo reporter di guerra?
E’ molto più difficile di quando lo facevamo noi: una volta faticare era sufficiente; se soffrire era abbastanza per resistere alla paura e alla fame, oggi si deve contrastare anche l’indifferenza dei media italiani e internazionali che sempre più spesso ignorano le notizie più vecchie di 24 ore: non le ritengono compatibili con gli standard della velocità dell’informazione gestita attraverso il satellite; quindi è l’immediatezza che determina l’importanza della notizia oggi e sicuramente rende molto difficile quei viaggi e le lunghe permanenze sui campi di battaglia che caratterizzavano i nostri reportage nelle guerre dimenticare degli anni ’80.
Oggi Almerigo avrebbe 62 anni: immaginiamo che Lei possa incontrarlo casualmente in un bar: quale momento ricorderebbe tra quelli trascorsi insieme e quali rimpianti?
Tra i momenti trascorsi insieme sicuramente il nostro primo viaggio in Birmania, quando all’improvviso ci ritrovammo incredibilmente nel mezzo di una prima linea, nella giungla, in cui combattevano i guerriglieri Karen: sembrava di colpo di essere entrati in un film; dopo avere superato un camminamento solcato da mine e trappole esplosive o di bambù, arrivammo in una trincea dove la prima immagine fu un guerrigliero Karen con il volto insanguinato che veniva portato via dai suoi compagni, a soli 300 metri dalla trincea dell’esercito birmano. Fotografammo e filmammo, nella trincea, i combattenti Karen per quasi 48 ore: l’intensità dei colpi di mortaio, che cadevano ovunque, era tale che una delle lenti della super8 uscì dall’involucro per lo spostamento d’aria. E’ forse questo uno dei momenti più emozionanti che abbiamo vissuto assieme.
Cosa non è stato detto ancora oggi di Almerigo Grilz?
Forse che la sua scelta di abbandonare la politica, che lo appassionava molto di più di inviato di guerra o essere un grande reporter, fu determinata anche da un partito che in quegli anni tendeva a mettere all’angolo le menti migliori e quelli che sarebbero potuti diventare personaggi di spicco all’interno di un mondo della destra; se non ci fossero state all’interno della destra certe meschinità e certi interessi di partito, forse Almerigo avrebbe fatto un’altra scelta e sarebbe stato nel corso degli anni un Ministro o qualcosa di più.
Intervista a Fausto Biloslavo
Grilz, Biroslavo e Micalessin: reporter di guerra senza il desiderio di timbrare il cartellino: quale è lo stimolo e l’impulso per correre là dove la morte sfiora e la verità è dura da raccontare?
La verità, con la V maiuscola, non fa parte di questo mondo; però lo stimolo è quello di essere un testimone dei nostri tempi e di situazioni di guerra, di conflitti e situazioni estreme: qualcuno deve raccontarle queste guerre perché, purtroppo, pensavamo di averle lasciate alle spalle; pensavamo che dopo il crollo del muro di Berlino il mondo diventasse migliore, invece sembra ancora più caotico; forse si stava meglio quando si stava peggio. Io, negli anni ’80, ho cominciato con questo spirito e, ancora prima, ciò che mi ha spinto è stato il desiderio di girare il mondo e la voglia di avventura che c’è in tutti i reportage; magari anche sbarcare il lunario e per fortuna ci sono riuscito.
Nell’ottobre del 1983 quale ruolo ha giocato per voi la paura o l’incoscienza nel vostro primo reportage in Afghanistan?
L’Afghanistan è stato per noi la nostra prima grande avventura, come per le generazioni precedenti di giornalisti il Vietnam e l’Armata Rossa. Un mese con i mujaheddin: in quel tempo non c’era nessun giubbotto antiproiettile, niente che riguardasse la sicurezza, non avevamo neanche una assicurazione perché avevamo appena incominciato; cercammo di fondare questa agenzia ( Albatros Press Agency, ndr) con il primo reportage, quello Afghano, che è stato un grande successo, al punto che lo avevamo venduto ai network televisivi americani: non c’era la CNN ma la CBS; un grande successo oggi impensabile: dal Pakistan abbiamo attraversato le aree tribali, insieme ai mujaheddin, fra bombardamenti e combattimenti oltre assedi di forti governativi, fino a Kabul: siamo riusciti anche a tornare indietro.
Almerigo Le ha mai confessato una paura o motivo che avrebbe potuto fargli cambiare mestiere?
No, la passione per questo mestiere era tale per tutti noi, a cominciare da Almerigo, che ce ne siamo subito innamorati; l’ho visto sbiancare anche se aveva il massimo controllo nelle situazioni più difficili, in mezzo alle battaglie. Ricordo che stando via tre mesi in Angola, oggi sarebbe improponibile, non c’erano solo i pericoli della guerra quali imboscate, battaglie o campi minati; proprio in Angola ricordo di averlo visto bianco come un lenzuolo perché per la prima volta dopo mesi potevamo fare una doccia da campo, una sorta di bidone da dove veniva fuori l’acqua piovana, con uno scolo nel terreno: mentre si faceva una doccia, tutto contento di ripulirsi dalla zozzeria della Savana dopo un mese con i guerriglieri, a un certo punto viene fuori dallo scolo un serpente che chiamavano la “vipera dei sette passi” nel senso che se ti morde fai sette passi e muori; si attorcigliò intorno alla gamba e lui restò immobile finchè il serpente andò via.
11/11/2008 è stata affissa all’ingresso del Palazzo della Stampa a Trieste una targa per ricordare Almerigo Grilz e i caduti sul fronte dell’informazione; Lei aveva scritto “…e da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul “buco nero” che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l’inviato ignoto…”: sono passati circa 6 anni e mezzo: la pagina è stata voltata?
La pagina è stata voltata a metà. E’ stato ricordato con una targa che ricorda tutti i giornalisti italiani caduti dopo la Seconda Guerra Mondiale; ovviamente non solo quelli in guerra, circa una dozzina: sono molti di più quelli uccisi dalla mafia e dal terrorismo, come ad esempio Tobagi. La richiesta era stata fatta anni prima perché sulla facciata, in vista maggiore, erano state messe delle targhe che ricordavano i giornalisti triestini caduti in guerra: Alessandro Ota, Dario D’Angelo, Marco Lucchetta, Miram Hrovatin (tre in Bosnia e uno in Somalia); mai avevano voluto aggiungere il nome di Almerigo perché era considerato l’uomo nero. Noi abbiamo fatto questa battaglia, l’abbiamo vinta ottenendo questa targa omnicomprensiva: la verità è che “sotto sotto” Almerigo rimane sempre un giornalista morto di serie B; per questo dico che è una pagina voltata a metà. Anche per i suoi trascorsi politici e scelte giovanili come leader del Fronte della Gioventù triestina.
Se potesse incontrare oggi Almerigo, casualmente in un bar, quale momento ricorderebbe e quali rimpianti? Cosa gli direbbe che non gli ha mai detto?
Se lo incontrassi in un bar spererei, magari con lui e con Gian, di rifare la stessa foto che ci hanno scattato sul Molo Audace a Trieste: forse l’unica foto in cui siamo tutti e tre assieme. Tra le cose mai dette, gli direi che un pezzo o un reportage non vale la vita e non valeva sicuramente la sua, come quella di nessun’altro: ci manca moltissimo, ci ha lasciato troppo presto. Il rimpianto si, c’è; eravamo già stati insieme in Africa, anche in Angola: il rimpianto è non essere stato con lui in Mozambico, il 19 maggio 1987, quando è morto.
Se dovesse programmare questa sera un reportage con Almerigo, cosa programmereste?
Avremmo solo l’imbarazzo della scelta: dalle bandiere nere in Libia al macello siriano o la guerra contro il califfato in Iraq. In realtà noi abbiamo iniziato quando c’erano molte guerre dimenticate: oggi le guerre non sono tanto dimenticate come un tempo: sono più di un tempo. Io, ad esempio, a breve partirò per la guerra più dimenticata al mondo, dove c’è una sorta di tregua non scritta: nel Nagorno Karabakh, in mezzo al Caucaso, una guerra che dura dagli inizi anni ’90. Partirò ricordando quando avevamo iniziato negli anni ’80, raccontando i conflitti dimenticati.
E’ stato scritto molto di Almerigo o forse troppo poco: secondo Lei c’è qualcosa che oggi ancora non è stato detto o scritto?
Si, sicuramente. Come detto prima Almerigo, nonostante sia stata voltata pagina, rimane a Trieste o in certi ambienti con la “puzza sotto il naso” anche politicizzati, un giornalista caduto di serie B. Quello che non è stato scritto è forse la sua grande abilità e professionalità, in tempi assolutamente non sospetti. Almerigo era capace, negli anni ‘80, di scrivere in italiano e in inglese e pubblicare gli articoli sul Sunday Times: ti garantisco che non ci sono molti giornalisti italiani che lo potessero fare. Almerigo aveva visto in quei tempi, non adesso che c’è internet, la multimedialità nel senso che era uno dei primi a utilizzare le cineprese super8, non c’erano le telecamere di oggi. I reportage dovevano avere tutto, questa era la regola imposta anche e soprattutto da Almerigo: dovevano contenere testo, scritti come grande racconto oltre foto e video: quindi multimediale. Altra cosa, assolutamente dimenticata o sottovalutata, è che Almerigo aveva una grande abilità nel disegno: accanto agli appunti, nei suoi diari e agende, spesso disegnava quello che vedeva, le battaglie, situazioni o nuovi posti esotici che visitavamo; sfogliare queste agende, di cui abbiamo copia, è bellissimo. Penso che nessun giornalista di guerra italiano sia stato così poliedrico, così multimediale e addirittura disegnatore come Almerigo.
Riferimenti e fonti:
– 11/05/2015, Intervista esclusiva di Gian Micalessin rilasciata a Claudio Gori (direttore@irog.it).
– 12/05/2015, Intervista esclusiva di Fausto Biloslavo rilasciata a Claudio Gori (direttore@irog.it).
– “L’albero di Almerigo”, documentario girato da Gian Micalessin nel 2002, in ricordo di Almerigo Grilz (https://www.facebook.com/video/video.php?v=10150195595602384).
– Foto pubblicate su gentile concessione di Gian Micalessin e Fausto Biloslavo.