Le moto fanno sognare. Le loro forme ardite, la melodia del motore, i colori sgargianti dei serbatoi rappresentano la libertà, la fuga dal mondo, una corsa oltre l’infinito. Autentiche creazioni d’arte, rivelano l’ispirazione di chi le ha disegnate e trasformano la concezione di agilità e movimento. Nata presumibilmente nel 1885 – ma la sua estetica si è sviluppata dopo la II Guerra Mondiale – in neanche 150 anni di storia alcune marche e modelli sono entrati nell’immaginario collettivo, dalle case italiane come Ducati e Moto Guzzi, passando per il genio britannico e l’efficacia giapponese, per giungere, infine, oltre oceano con il mito americano delle Harley-Davidson. Un vero e proprio viaggio intorno al mondo per scoprire le storie che hanno reso grande ciò che Pirsig definiva “un sistema di concetti realizzato in acciaio”.
Esattamente vent’anni dopo The Art of Motorcycle, la grande mostra del Guggenheim Museum di New York che segnò un record assoluto di visitatori, Arthemisia e Consorzio delle Residenze Reali Sabaude dedicano al mondo delle due ruote la mostra Easy Rider. Il mito della motocicletta come arte.
Con il patrocinio di Città di Torino, curata da Luca Beatrice, Arnaldo Colasanti, Stefano Fassone e ospitata alla Reggia di Venaria negli spazi della Citroniera delle Scuderie Juvarriane dal 18 luglio 2018 al 24 febbraio 2019. Tanti i modelli di motociclette esposti a Venaria, diversi evocano film leggendari, come il chopper di Easy Rider, la Triumph Bonneville che Steve McQueen guidava ne La Grande Fuga. Oppure i bolidi da gran premio, la MV Agusta di Giacomo Agostini, la Yamaha di Valentino Rossi e la Ducati di Casey Stoner. Altri veicoli fanno un tutt’uno con il viaggio e l’avventura: la mitica Vespa di Bettinelli che ha percorso 24.000 km da Roma a Saigon, le special che hanno attraversato il deserto di sabbia della Parigi-Dakar, e ancora enduro, trial, nastri d’asfalto. E con una sostanziale novità: oltre cinquanta modelli di moto dialogano con opere d’arte contemporanea, tra riferimenti espliciti e suggestioni indirette.
Tra i nomi degli artisti, Antonio Ligabue con l’Autoritratto con moto (1953), Mario Merz con Accelerazione = sogno (storica installazione esposta i diversi musei a partire dal 1972), Pino Pascali con 9 mq di pozzanghere realizzati nel 1967 un anno prima della morte. E ancora: Alighiero Boetti, Rosso Guzzi e Rosso Gilera (1971), la grande scultura Vejo di Giuliano Vangi (2010), le fotografie inedite di Gianni Piacentino High Speed Memories (1971- 1976) che testimoniano la sua attività nelle corse in sidecar e la scultura Self Portrait Race (1991-1993).
Autentica chicca sono i dipinti di Paul Simonon, ex bassista dei Clash, appassionato collezionista di moto. Fotografie, still e locandine di cinema raccontano un mondo che esprime una visione a 360 gradi sulla moto. Certo, il desiderio di libertà, la rabbia, la voglia di fuga ma soprattutto quella scoperta di sé che sfiora la filosofia e si materializza attraverso il viaggio. La mostra Easy Rider racconta gli episodi di una storia straordinaria diventata leggenda: tra stile, velocità, prestazioni, la motocicletta ha alimentato il mito del viaggio, della conquista della libertà, della solitudine nel paesaggio dal quale niente separa mentre lo si attraversa sfrecciando su due ruote. Nove le sezioni in cui si sviluppa il racconto: Stile, forma e design italiano; Il Giappone e la tecnologia; Mal d’Africa; La velocità; Sì, viaggiare; London Calling; Il Mito americano; Terra, Fango e Libertà; La moto e il cinema.
LA MOSTRA
Prima sezione – Stile forma e design italiano L’ingegno è un fatto italiano: così lo stile, la funzionalità, l’eleganza. Ma l’ingegno è anche l’esaltante ricerca della bellezza, la grande tradizione della nostra industria della velocità. La moto è il desiderio di libertà per generazioni e generazioni di italiani. Dopo la Seconda guerra mondiale, il design esplode e impone, nei modelli di moto, i caratteri guida della creatività italiana: snellezza, proporzione, intelligenza meccanica. Un risultato che vive nell’arte, in particolare nell’Arte Povera, a partire dal 1967. Non conta la “povertà” dei materiali, ma la loro capacità di essere azione, racconto, ambiente. Per Alighiero Boetti il colore è l’ordine dell’immagine. Nell’Accelerazione di Mario Merz una motocicletta è lanciata verso l’infinito, mentre il neon rende vero il sogno, così come è sempre, vera, nella F4 Serio Oro dell’Agusta del 1998 o nella grazia della Piuma Gilera del 1951, la visione del movimento. Pino Pascali è “motociclista d’arte”: le sue pozzanghere sull’asfalto restano salti nel vuoto. Giochi ribelli della giovinezza.
Seconda sezione – Il Giappone e la tecnologia Honda, Suzuki, Yamaha, Kawasaki: è la costellazione favolosa dell’industria motociclistica giapponese a partire dagli anni Settanta. Un equilibrio perfetto di tecnica e qualità dei telai, un’esatta connessione di leggerezza, modularità e forza dei materiali, l’eleganza e l’aggressività persino stravagante, se non infantile, di motociclette perfettamente affidabili. La potenza e il sogno del Sol Levante conquistano velocemente il mercato internazionale. La motocicletta non è soltanto un mezzo di trasporto, mira a essere sport, divertimento, giovinezza, bellezza e arte naturale. La nuova moto giapponese è dunque l’immagine vivace e fantasticamente conceptual delle avanguardie giapponesi del dopoguerra: appare una realtà fluxus, diventa un manga improvvisamente concretizzato nella realtà che sfolgora per gli street crossing di Tokyo.
Terza sezione – Mal d’Africa Quando Thierry Sabine, durante la corsa Abidjan-Nizza, rischiò di perdersi nel deserto, volle esorcizzare l’incubo immaginando una nuova “scuola di vita”, un rally che si svolgesse lungo il percorso al contrario: era il 1979 e nacque così la Parigi-Dakar. Non esistono film né libri che abbiano saputo raccontare meglio la terribile attrazione del deserto e del mal d’Africa come la furia di automobili, camion e motociclette. Tempeste di polvere, piste di rocce e sassi, il gran caldo, la solitudine del pilota, le insidie naturali, la fatica e la morte. Ma anche la leggenda. Leggendarie motociclette che corrono dall’alba alla notte lungo migliaia di chilometri: Yamaha, BMW, KTM, e ancora Cagiva, Gilera, Honda. Il viaggio verso il mare del Senegal resta una delle imprese epiche della cultura di fine Novecento. Un’avventura che stringe la tecnologia alla durezza della natura, l’olio dei motori alla sabbia, come nel Miraggio di Mario Schifano. Un sogno di esplorazione che dà la chiave di un’esistenza sempre tutta da costruire, come nell’installazione di Medhat Shafik e nel quadro di Chéri Samba. La Parigi-Dakar ha rappresentato il superamento della paura.
Quarta sezione – La velocità Nonostante il pensiero vada a Pino Pascali, che corre sfolgorante nell’arte italiana del dopoguerra come la motocicletta, suo grande amore, su cui morirà, trentatreenne, nel 1968, la chiave per svelare ciò che davvero si nasconde nel mito di nomi astrali – quali l’MV Agusta di Giacomo Agostini, la Yamaha di Valentino Rossi, la Ducati di Casey Stoner – corre verso l’opera di Gianni Piacentino. La moto (una Indian degli anni Trenta) è centrale nella biografia dell’artista torinese. «Mi piaceva seguire i lavori», racconta, a proposito del restauro della motocicletta «e vedere i colori, così mi venne in mente di immettere anche i miei interessi e la mia passione nella mia arte – tra gioco e mania, attenzione e attrazione per l’estetica industriale e per il design – che includeva anche l’idea di possedere e guidare una motocicletta. Cominciai a fare modellini segando parti di macchinine.» Negli anni Settanta Piacentino gareggia sul sidecar della Suzuki 750 guidata da Franco Martinel, all’International Sidecar Championship Race. La moto è l’ostinato rigore dei pensieri in fuga.
Quinta sezione – Sì, viaggiare Se dovessimo cercare le parole che caratterizzano la società democratica uscita dal dopoguerra eviteremmo, perché limitati, termini come diritti, uguaglianza, solidarietà. Il carattere essenziale delle generazioni della seconda parte del Novecento è la libertà di circolazione e di movimento, l’utopia realizzata del viaggiare ovunque. Nulla come il viaggio su due ruote – sia in Vespa sia in BMW GS 100, sia in Harley-Davidson o su Honda Gold Wing – rappresenta il segno della liberazione individuale e sociale per intere generazioni. Il viaggio è la modernità e la circolazione senza costrizioni, il mantra o la ballata più bella di ognuno. Persino l’arte, apparentemente drammatica di Emilio Isgrò, le sue “cartine geografiche” con le cancellature di zone o di didascalie, svela il trionfo della forza del viaggio. Isgrò crede che l’arte bonifichi il linguaggio della gente per renderlo ancora un’avventura, appunto un’occasione di intelligenza e di scoperta. La motocicletta è stata la gloria di un viaggio fatto con se stessi, mentre in faccia sbatte forte la libertà di essere e di vivere.
Sesta sezione – London Calling Seppur vittoriosa nel secondo conflitto mondiale, la Gran Bretagna vede terminare con gli anni Cinquanta, la propria prosperità economica e il mondo dell’industria, in particolare quella motociclistica, ne risente. Negli anni Sessanta, quelli dei Beatles, dei Rolling Stones e degli Who, si fa largo la voglia di automobili, lasciando le moto a una nicchia di appassionati. Di lì a poco crolleranno i due grandi gruppi BSA e Matchless. Non resta che ammirare le loro creazioni, come la BSA Gold Star, le Triumph Bonneville e Trident, la Norton Commando e la Matchless G80, frutto del genio britannico che si è perso per le strade di Londra. L’arte stessa le celebra, clamorosamente, con Paul Simonon, bassista dei leggendari Clash, che dedica un’intera mostra di pittura a quello straordinario mondo vintage. Caschi, guanti, una mitica Black Bonneville: l’arte della moto come arte della bellezza, reinventata in un sogno di mai perduta adolescenza.
Settima sezione – Il mito americano Quando, nel 1974, uscì Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta l’America tornò pienamente beat. Robert M. Pirsig parlava della qualità e della felicità dell’esistenza: il viaggio a cavalcioni di una moto, era l’on the road dell’anima, la voracità, la sete, la ricerca del senso di ogni cosa, la certezza che solo lungo «i fianchi della montagna e non sulla cima si sviluppi la vita». Pirsig guidò solo una BMW ma tutti i motociclisti lo amarono. Le Harley-Davidson Electra Glide del 1972 o la Panhead del 1948 e la 883 del 1965 sono i mostri d’acciaio che tagliano e uniscono per sempre la giovinezza di un padre e di un figlio. Occorrono dunque ironia, passione, sorpresa, coraggio, persino un’inguaribile impertinenza per poter viaggiare dentro se stessi. Il mito americano riecheggia nel Love di Robert Indiana, simbolo dei favolosi anni Sessanta, nelle strade vuote e nei desolati gas station di Glen Rubsamen, nella bellezza irriverente della motociclista di Ida Tursic & Wilfried Mille e nel divertente pop surrealismo di Andy Rementer.
Ottava sezione – Terra, Fango, Libertà Gli happening dell’americano Aaron Young sono forme di graffitismo supercontemporaneo, pittura materiale, incisione del metallo. Ma è il mezzo che usa a sorprendere. Non un pennello, una punta, né la fiamma ossidrica, bensì una Honda che frena, sgomma e che nel delirio di polvere e di materiale incandescente lascia inciso il proprio misterioso ritratto del mondo. Per l’immaginario dei motociclisti, il cross, il trial e l’enduro sono soprattutto questo: la maniera di ritrovarsi nella sopportazione tra la polvere e il fango, sapendo opporre solo il coraggio del pilota e la bellezza dei panorami. E tali restano le leggende delle più specialistiche Husqvarna, Montesa Cota e Puch, o delle sinuose Ducati Scrambler e Guzzi Mirimin, ideali per apprezzare le strade bianche, non asfaltate. Il “fuori strada” è la sperimentazione di una libertà altra e diversa. Un istinto selvaggio e nomade. Un “fuori”, tuttavia, che non è solo deragliamento e perdita del limite ma desiderio di rinnovare, di espandere, di rendere globale l’esperienza della vita.
Nona sezione – La moto e il cinema Più dei titoli sono le moto il vero segno di riconoscimento di alcuni capolavori del cinema. La Brough Superior SS 100 è la solitudine sovrana del Lawrence d’Arabia, il segno più segreto del suo carisma. La Triumph Bonneville di Steve McQueen salta il ferro spinato e corre via ne La grande fuga oppure rende incomparabile, ne Il selvaggio, il dio di un altro sconosciuto universo, Marlon Brando. Così la Ossa Enduro porta in giro la simpatia di Terence Hill e Bud Spencer in …altrimenti ci arrabbiamo!, mentre la leggendaria Harley-Davidson Hydra Glide Chopper del 1949 si fa mito di tutti i miti on the road, la visione americana di Easy Rider. La motocicletta è attorialità, è arte, è comunicazione. È in sé un primo piano o magari un paesaggio: a volte è la vera coprotagonista di una storia tragica ed epica. Perché la moto, con la sua forza iconica e simbolica, con la sua perfetta bellezza di forma, di segno e di eleganza, è innanzi tutto una scommessa sulla vita.