Pochi al mondo, in tempi remoti e recenti, possono vantare di essere Grandi per l’umanità e Grandi per valori e coraggio innati ed infusi; Mohammed Alì non è nell’astratto elenco: Egli è l’unico in lista. Definirlo un mito sarebbe riduttivo, affermare che è stato l’unico boxer vorace di vittoria di tutti i tempi sarebbe insufficiente, ebbene ci limiteremo a dichiararlo così come l’universo sportivo e l’umanità lo ha coniato: The Legend, The Influence.
Morto ieri sera dopo una lunga e celebre vita vissuta al limite del gong, perseguendo la parallela via di valori e pugni che spesso annullavano qualsiasi regola algebrica: un parallelo che confluì nel finale tangente la conversione religiosa, la rivoluzione afro-americana per il reclamo dei diritti negati e il rifiuto alla guerra del Vietnam: “La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera […] Siete voi il mio nemico, il mio nemico è la gente bianca, non i Vietcong i cinesi o i giapponesi. Voi siete i miei oppositori se voglio la libertà, siete voi i miei oppositori se voglio giustizia. Siete voi i miei oppositori se voglio uguaglianza…”. Nel 1967 il rifiuto all’arruolamento militare gli costò la revoca del titolo mondiale dei pesi massimi, ma nel 1971 la Suprema Corte gli riconobbe il diritto all’obiezione di coscienza.
“I’m gonna whup whoever stole my bike!” (“Sto andando a cercare chiunque abbia rubato lamia bici!”): probabilmente il fato lo costrinse a rinforzare il fisico per combattere il sopruso, così come consigliato dall’agente di polizia irlandese Joe Martin al deciso 12enne Cassius Marcellus Clay Jr.: meglio imparare prima a combattere contro chiunque, prima della sfida. Dopo soli sei mesi di allenamento, Cassius Clay vinse in tre rounds il suo primo incontro.
18enne sfacciato e dedito agli allenamenti come nessun’altro, nel 1960 vinse i Giochi Olimpici di Roma: la sua personalità e lo spirito gli fecero guadagnare il soprannome di “sindaco del villaggio olimpico”: il preludio del suo futuro, di uomo sfrontato e forse platealmente invasivo, ma indubbiamente utile alla sua causa: ““Boxing was just a means to introduce me to the world” (“Il pugilato è stato solo il mezzo per prestarmi al mondo”).
“Non ho paura di te..”, lo ripeteva prima dell’ incontro, nel faccia a faccia durante la certificazione del peso, contro Sonny Liston: una clamorosa e inaspettata conquista del titolo quel 25 febbraio 1964 presso la St. Dominic’s Hall, Lewiston, Maine, Stati Uniti. Saltellò sul ring, sfinendo l’avversario, colpendolo con pressione e chirurgica precisione: guardia bassa, colpi accusati sul proprio corpo fino al limite: al sesto round inizia il gioco del picchiatore Cassius Clay, danzando come una farfalla e colpendo come un’ape: Sonny Liston si ritira prima del settimo round mentre Clay saltellando e danzando attendeva il rientro dell’avversario: Sonny Liston getta la spugna, e Cassius Clay festeggiò con Malcom X: una solidale condivisione di ideali che sempre più li unì.
Clay diede prova al mondo intero, ai più deboli ed ai neri americani che tutto era possibile, anche se un ostacolo poteva frapporsi tra la propria volontà e convinzione: era sufficiente credere in se stessi. Una lotta decisa e mediatica contro un nemico da egli ritenuto insopportabile e non invincibile: la segregazione razziale.
Si convertì all’Islam, assumendo il nome di Muhammad Alì: si definì un “ministro della religione islamica“, impegnandosi attivamente nelle lotte anti-razziali condotte da Malcom X e Martin Luther King.
Alcuni incontri di boxe rimarranno negli indelebili ricordi del pugilato mondiale: dal primo match con Liston ai successivi tre incontri con Joe Frazier e contro George Foreman. 56 vittorie nella carriera di Muhammad Ali, di cui 37 per KO, su 61: perse per KO una sola volta. Movimentata anche la sua vita privata: sposato quattro volte, sette figlie (di cui due avute da relazioni extra-coniugali) e due figli.
Nel 1974 mise al tappeto George Foreman: un incontro che probabilmente rimarrà nella storia a tempo indeterminato: disputato a Kinshasa, nell’allora Zaire, e fedelmente celebrato nel film-documentario “Quando eravamo re” (1996, “When We Were Kings”, regia di Leon Gast).
Dai primi mesi del 1980 Alì iniziò ad accusare i primi sintomi contro i quali non era consentito boxare, la Sindrome di Parkinson. Proprio nel 1980 affrontò Larry Holmes per riconquistare il titolo WBC, perdendo alla decima ripresa gettando la spugna; l’11 dicembre 1981 perse ai punti dopo dieci round contro Trevor Berbick, assumendo movimenti rallentati, parlando in modo anomalo rispetto al passato: probabilmente la Sindrome di Parkinson aveva iniziato il suo match. Riuscì a commuovere il mondo intero durante le Olimpiadi di Atlanta del 1996: fu l’ultimo tedoforo e gli venne riconsegnata la medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi di Roma del 1960, gettata platealmente da Alì nelle acque del fiume Ohio, dopo un episodio di razzismo.
Nel 2009 Focus Storia lo elegge “Sportivo del Novecento”; tutt’oggi è uno dei rari sportivi statunitensi ad avere ricevuto la “Medaglia presidenziale della libertà” conferita a coloro che hanno dato: “un contributo meritorio speciale per la sicurezza o per gli interessi nazionali degli Stati Uniti, per la pace nel mondo, per la cultura o per altra significativa iniziativa pubblica o privata“.
Questo pomeriggio il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama scrive sul profilo Facebook della Casa Bianca: “Non era perfetto, naturalmente. Per tutta la sua magia sul ring, potrebbe essere trascurato con le sue parole, e pieno delle contraddizioni mentre la sua fede si è evoluta. Ma il suo spirito meraviglioso, contagioso, anche innocente infine lo ha battuto più dei fan che i nemici – forse perché in lui, abbiamo sperato di vedere qualcosa di noi stessi. Successivamente, mentre i suoi poteri fisici lo hanno declinato, si è trasformato in una forza ancor più potente per la pace e nella riconciliazione intorno al mondo.” (“He wasn’t perfect, of course. For all his magic in the ring, he could be careless with his words, and full of contradictions as his faith evolved. But his wonderful, infectious, even innocent spirit ultimately won him more fans than foes—maybe because in him, we hoped to see something of ourselves. Later, as his physical powers ebbed, he became an even more powerful force for peace and reconciliation around the world.” – https://www.facebook.com/WhiteHouse/posts/10154414735744238:0).
17 gennaio 1942 (Louisville, Kentucky, Stati Uniti) – 3 giugno 2016 (Phoenix, Arizona, Stati Uniti): sono le carni e le ossa ad essere dipartite, non l’eredità spirituale. Campione sul ring, nella vita e contro ogni ostacolo alla libertà: la natura l’unico imprevisto, non l’ostacolo.
«Le mie sofferenze fisiche sono state ripagate da quello che sono riuscito ad ottenere nella vita. Un uomo che non è coraggioso abbastanza da assumersi dei rischi, non otterrà mai niente». 1984, Houston.
Fonte immagini: https://www.instagram.com/muhammadali/